Falafel. All’unisono risponderebbero da Tel Aviv a Gerusalemme insieme ai quartieri della Grande Mela come Crown Heights, cuore ebraico di Brooklyn, e ovunque nel mondo ci siano comunità ebraiche. Come anche dal Cairo, a Beirut o a Ramallah, visto che anche egiziani, libanesi e palestinesi rivendicano la paternità di queste irresistibili polpette vegetariane, ora tonde, ora schiacciate, a base di ceci (o fave) tritati, con coriandolo, aglio e cumino, accompagnate o meno da hummus e tahini, immancabili nella serie di antipasti nota come mezé e come
spezzafame nell’iftar, il pasto rituale che dopo il calar del sole interrompe il digiuno del Ramadan. Il Vicino Oriente mediterraneo ne è dunque la culla storica. Qualche accenno, visto le incertezze sull'origine del nome: potrebbe derivare dall’arabo fal? fil, plurale di filfil, e cioé pepe, con allusione alla piccantezza (sanscrito “pippali”), oppure dall’aramaico filfal, da una radice lessicale che indica rotondità, caratteristica, appunto, delle polpette. Abbiamo anche varie ipotesi sul fronte etimologico, ma questa come altre volte non ci aiutano a far chiarezza: i Falafel sono arabi o israeliani?. L’ipotesi oggi più accreditata, suffragata da fonti documentali e ritrovamenti archeologici, è che l’origine dei Falafel vada ricercata circa un migliaio di anni fa nel Basso Egitto, presso le comunità copte di religione cristiana, che ne avrebbero poi diffuso l’usanza in tutto il Medio Oriente. Base del piatto, però, non erano i ceci, ma le fave, come ancor oggi si usa per preparare la Ta'amiya, sorella ancestrale del Falafel. Per complicare le cose, ci sarebbe una terza ipotesi, che propende per il subcontinente indiano come atavica terra di origine. Radici non meno antiche vanta il Falafel ebraico, nella percezione comune cibo mitico risalente all’epopea biblica, sacrale retaggio dell’amara schiavitù in Egitto. Ci viene però in aiuto Gil Hovav (chef gastronomo molto famoso e israeliano) che ha dichiarato:
“è arabo, non c’è dubbio. Anche l’Hummus è arabo. Quello che noi israeliani chiamiamo il nostro piatto nazionale è in realtà completamente arabo e così pure l’insalata di accompagnamento che noi chiamiano israeliana è di fatto un’insalata araba, araba palestinese. A conti fatti, noi israeliani abbiamo scippato i Falafel agli arabi”.
Quella di Hovav, la definirei una grande prova di onestà intellettuale che poco sarà piaciuta in certi ambienti politici, abituati a considerare il Falafel intoccabile vessillo nazionale. Vero è che i falafel, specialmente nella variante a base di ceci, sono stati ripresi e amplificati in tutto il mondo dalle comunità ebraiche che hanno contribuito alla diffusione su scala planetaria del piatto. Da Toronto a Sidney, Falafel è oramai sinonimo di street food cosmopolita, nutriente, low price e supertrendy, da solo o come golosa farcitura della classica pita, con corollario di pomodori e cetrioli, sano, eco-friendly e gluten free. E' ormai indiscusso protagonista di locali in franchising come Maoz (Olanda, Francia, Spagna e Usa dal 1991) o gli Amsterdam Falafelshop di oltreoceano. Da Abu Dhabi capitale degli Emirati, è partito invece più di recente l’ambizioso business della catena Just Falafel-JF street food indirizzato all’Europa, già forte di una quarantina di location e di un claim in linea con i principi dietologici e gli stili alimentari più antichi e più saggi del mondo, quelli delle genti mediterranee. Perfino la catena Mac Donald si è adeguata, introducendo in alcuni paesi come Israele il Falafel, in versione piatta tipo mini-hambuger, accompagnato dal canonico Hummus.
Diciamo che la "visione globale" del "mercato globale" di falafel, molto mi amareggia. Per questo ho deciso di scriverne la ricetta che verrà seguita da quella del hummus. L'ho ripresa, apportando qualche infinitesimo accorgimento, da un gustoso libro: Pop Palestine Salam Cusine, tra Gaza e Jenin. E' firmato da 3 donne. La chef Fidaa Ibrahim Abuhamdieh, Silvia Chiarantini e poi la fotografa Alessandra Cinquemani. A parte Fidaa, che non ho avuto il piacere di conoscere, gli autori di questo"viaggio nella cucina popolare palestinese: di casa in casa, dai laboratori di pasticceria ai venditori ambulanti", sono persone a me vicine, compreso Armando, uno dei miei amati cuochi. Hanno tirato fuori anche uno sfiziosissimo documentario della loro avventura che si intitola appunto Pop Palestine, che vi invito a vedere.
Ora passiamo alla ricetta, le dosi che vi scrivo sono per circa 25 pezzi
1 kg di ceci secchi
2 spicchi di aglio
2 cipolle medie bianche o rosate ( in stagione quelle di tropea)
1 mazzo di prezzemolo fresco
1 cucchiaino di cumino in polvere
1 cucchiaino di semi di coriandolo
sale
olio di semi
Lasciate i ceci in ammollo per almeno 24-36 ore (meglio 36). Scolateli e asciugateli bene, frullateli insieme a cipolla, aglio e tutte le spezie nel mixer fino ad ottenere un impasto morbido a cui aggiungerete poi il prezzemolo tritato a parte, meglio a coltello (questo eviterà di “bagnare” il composto con l’acqua che uscirebbe dal prezzemolo frullato nel mixer. A proposito di questo sarebbe anche meglio frullare la cipolla a parte e "asciugare il composto con un panno e poi unirlo ai ceci già frullati. Assaggiate e correggete di sale.
Una volta mescolato bene il tutto, lasciate riposare in frigo per almeno 1 ora. Confezionate le vostre polpette rotonde e leggermente schiacciate di circa 5/6 cm. e preparate la padella con molto olio (si frigge per immersione) per procedere alla frittura.
Meglio provare a friggerne una sola per controllare la stabilità dell’impasto e se risultasse troppo umido, unire un cucchiaio di farina (in alternativa alla farina bianca anche quella di riso o maizena)